Per fare quattro chiacchiere su tutto ciò che ci passa per la testa!
Due musicisti ecuatoriani di notevole fama internazionale danno vita al Duo Paganini
di Mayela Barragán
Il “Duo Paganini”è composto da due virtuosi della musica ecuatoriana, Julio Almeida, chitarra, e Jorge Saad Scaff, violino. Con il concerto “Da Paganini alle Ande”il duo si è presentato a Genova per la prima volta nel settembre del 2010 ed è tornato a suonare nella primavera del 2011.
Fa il suo debutto nove anni fa in Colonia, Germania, e vine accolto dalla critica specializzata con grandi elogi.
Dal 2002 ha offerto concerti in sale prestigiose come la Carnegie Hall, la Royal Festival, il Teatro Colón de Buenos Aires, ecc.
—Quando nasce il Duo Paganini?
—Otto anni fa ci trovavamo in Germania e per un concerto del duo ci hanno chiesto di darci un nome, per cui abbiamo iniziato a pensare, e ci siamo resi conto che non volevamo cadere in uno stereotipo;che volevamo trovare un nome internazionale, certo dire “Duo Paganini” poteva sembrare pretenzioso. Però sapevamo bene che Paganini suonava violino e chitarra, che il nostro Duo è composto da un violinista e un chitarrista, e che, quindi, il nome giusto era “Duo Paganini”, perché questo musicista italiano è stato l'unico compositore che sfruttò al massimo questo abbinamento chitarra violino.
—Come siete arrivate a Genova?
—Grazie alla dott.ssa Esther Cuesta, Console dell'Ecuador in Genova che è riuscita nel settembre del 2010 a organizzarci un primo concerto nella prestigiosa Sala del Minor Consiglio di Palazzo Ducale di Genova, città con cui Guayaquil è gemellata. A noi interessa molto che tra Genova e Guayaquil si dia un intercambio culturale significativo e forte, perché in Guayaquil esiste una forte comunità di genovesi e liguri. Noi offriamo al pubblico un'altra immagine della cultura ecuatoriana. Il nostro paese ha moltissimi artisti preparati in diverse arti classiche, ma sono poco visibili. In Guayaquil, per esempio, esiste una delle migliori orchestre dell'Ecuador che viene definita come una delle più importanti di Latinoamerica.
—Che tipo di pubblico avete trovato qua?
—Non vogliamo peccare per arroganti, ma a noi che abbiamo suonato nelle migliori sale europee e americane e per un pubblico specializzato, ci avevano detto che il pubblico genovese poteva risultarci apatico, invece abbiamo riscontrato il contrario, perché abbiamo sentito un pubblico interessato, entusiasta e attento.
—Come nasce la struttura del concerto, la costruzione musicale “Da Paganini alle Ande”.
—L'idea è nata per un pubblico europeo e sembra che la costruzione del concerto no abbia un senso logico, nonostante i temi che interpretiamo ci permettono molteplici variazioni. La mescolanza di Pasillos, Danzantes, Yaraví e Yumbo, generi musicali della musica andina ecuatoriana che sono caratterizzati da cinque toni si accostano anche se sembra illogico con le piece di Paganini che aprono i nostri concerti, perché solo le opere di Paganini ci permettono di fare capire al pubblico lo spessore tecnico del Duo, successivamente il segreto sta nello sviluppare una eccellente transizione e dobbiamo ammettere che il resto lo fa l'empatia che regna tra noi due, per questo le piece del folklore ecuatoriano che presentiamo in versioni di suites accademiche esprimono la forza maggiore quando il violino alla fine del concerto diventa una percussione. "Da Paganini alle Ande” è un programma che continuiamo ad arricchire di variazioni; abbiamo persino aggiunto composizioni di avanguardia. La versione che abbiamo offerto ai genovesi è iniziata come è nostra consuetudine con i temi di Paganini, proseguito con Massenet, Astor Piazzola, D. Reis, D. Luzuriaga, C. Aizaga, G. Guevara e Espín Yepez.
—Quali sono i brani di Pagani che le piacciono di più—ho chiesto a Jorge Saad Scaff, il violinista, che è stato definito da Mar Holston, critico musicale della Rivista “Americas” dell'Organizzazione degli Stati Americani, come uno dei migliori musicisti classici delle Americhe.
—Il mio amore per questo eccezionale genio musicale genovese è nato quando a sei anni mi hanno regalano un libro a fumetti chiamato “La Vita di Paganini.” Della sua opera preferisco i duetti per violino e chitarra. Paganini era anche un eccellente chitarrista. Adoro La Campanella e il Concerto N° 4. La musica di Paganini mi piace molto perché per Paganini il violino era come una primadonna ed è stato lui ad abbinare violino e chitarra e a fare in modo che in una sonata violino e chitarra fossero solisti.
—Quale è il modello di violino che preferisce?
—Ho una copia esatta del Canone di Paganini, fatta dal liutaio argentino Daniel Karin Kanta.
—Per quando prevedete un vostro ritorno a Genova?
—Per il momento non abbiamo una data precisa, tutto dipenderà dal lavoro della nostra Console—hanno concluso entrambi gli integranti del Duo Paganini.
Fa il suo debutto nove anni fa in Colonia, Germania, e vine accolto dalla critica specializzata con grandi elogi.
Dal 2002 ha offerto concerti in sale prestigiose come la Carnegie Hall, la Royal Festival, il Teatro Colón de Buenos Aires, ecc.
—Quando nasce il Duo Paganini?
—Otto anni fa ci trovavamo in Germania e per un concerto del duo ci hanno chiesto di darci un nome, per cui abbiamo iniziato a pensare, e ci siamo resi conto che non volevamo cadere in uno stereotipo;che volevamo trovare un nome internazionale, certo dire “Duo Paganini” poteva sembrare pretenzioso. Però sapevamo bene che Paganini suonava violino e chitarra, che il nostro Duo è composto da un violinista e un chitarrista, e che, quindi, il nome giusto era “Duo Paganini”, perché questo musicista italiano è stato l'unico compositore che sfruttò al massimo questo abbinamento chitarra violino.
—Come siete arrivate a Genova?
—Grazie alla dott.ssa Esther Cuesta, Console dell'Ecuador in Genova che è riuscita nel settembre del 2010 a organizzarci un primo concerto nella prestigiosa Sala del Minor Consiglio di Palazzo Ducale di Genova, città con cui Guayaquil è gemellata. A noi interessa molto che tra Genova e Guayaquil si dia un intercambio culturale significativo e forte, perché in Guayaquil esiste una forte comunità di genovesi e liguri. Noi offriamo al pubblico un'altra immagine della cultura ecuatoriana. Il nostro paese ha moltissimi artisti preparati in diverse arti classiche, ma sono poco visibili. In Guayaquil, per esempio, esiste una delle migliori orchestre dell'Ecuador che viene definita come una delle più importanti di Latinoamerica.
—Che tipo di pubblico avete trovato qua?
—Non vogliamo peccare per arroganti, ma a noi che abbiamo suonato nelle migliori sale europee e americane e per un pubblico specializzato, ci avevano detto che il pubblico genovese poteva risultarci apatico, invece abbiamo riscontrato il contrario, perché abbiamo sentito un pubblico interessato, entusiasta e attento.
—Come nasce la struttura del concerto, la costruzione musicale “Da Paganini alle Ande”.
—L'idea è nata per un pubblico europeo e sembra che la costruzione del concerto no abbia un senso logico, nonostante i temi che interpretiamo ci permettono molteplici variazioni. La mescolanza di Pasillos, Danzantes, Yaraví e Yumbo, generi musicali della musica andina ecuatoriana che sono caratterizzati da cinque toni si accostano anche se sembra illogico con le piece di Paganini che aprono i nostri concerti, perché solo le opere di Paganini ci permettono di fare capire al pubblico lo spessore tecnico del Duo, successivamente il segreto sta nello sviluppare una eccellente transizione e dobbiamo ammettere che il resto lo fa l'empatia che regna tra noi due, per questo le piece del folklore ecuatoriano che presentiamo in versioni di suites accademiche esprimono la forza maggiore quando il violino alla fine del concerto diventa una percussione. "Da Paganini alle Ande” è un programma che continuiamo ad arricchire di variazioni; abbiamo persino aggiunto composizioni di avanguardia. La versione che abbiamo offerto ai genovesi è iniziata come è nostra consuetudine con i temi di Paganini, proseguito con Massenet, Astor Piazzola, D. Reis, D. Luzuriaga, C. Aizaga, G. Guevara e Espín Yepez.
—Quali sono i brani di Pagani che le piacciono di più—ho chiesto a Jorge Saad Scaff, il violinista, che è stato definito da Mar Holston, critico musicale della Rivista “Americas” dell'Organizzazione degli Stati Americani, come uno dei migliori musicisti classici delle Americhe.
—Il mio amore per questo eccezionale genio musicale genovese è nato quando a sei anni mi hanno regalano un libro a fumetti chiamato “La Vita di Paganini.” Della sua opera preferisco i duetti per violino e chitarra. Paganini era anche un eccellente chitarrista. Adoro La Campanella e il Concerto N° 4. La musica di Paganini mi piace molto perché per Paganini il violino era come una primadonna ed è stato lui ad abbinare violino e chitarra e a fare in modo che in una sonata violino e chitarra fossero solisti.
—Quale è il modello di violino che preferisce?
—Ho una copia esatta del Canone di Paganini, fatta dal liutaio argentino Daniel Karin Kanta.
—Per quando prevedete un vostro ritorno a Genova?
—Per il momento non abbiamo una data precisa, tutto dipenderà dal lavoro della nostra Console—hanno concluso entrambi gli integranti del Duo Paganini.
L'UOMO CHE DOVEVA UCCIDERE MAO di Barbara Alighiero
recensione di Valentina Masio
“Era il pomeriggio del 26 settembre 1950. Il pallido sole autunnale si era ritirato dal Vicolo della Dolce Pioggia, addobbato con le bandiere di seta rossa a cinque stelle gialle, cucite in fretta per festeggiare il primo anniversario dell'avvento dei comunisti al potere. Una dozzina di poliziotti, alcuni nelle uniformi verdi troppo grandi e sgualcite, altri in borghese, erano scesi di corsa dalle auto. [...] Gli abitanti del quartiere rientrarono in casa alla svelta. [...] Nessuno osava affacciarsi. Aspettavano. Ma già sapevano.”
Così si compì il destino del nostro connazionale Antonio Riva, “L'uomo che doveva uccidere Mao”, primo e, fino a pochi mesi fa, unico europeo condannato a morte in Cina. Barbara Alighiero, sinologa, già capo ufficio dell'agenzia Ansa a Pechino e Direttrice dell'Istituto di Cultura Italiano in Cina, riporta alla luce questa dolorosa vicenda per fare chiarezza sugli avvenimenti e soprattutto per restituire la dignità negata al protagonista, pedina sacrificata e rapidamente dimenticata nel grande gioco della politica internazionale. Il libro raccorda le storie personali e familiari dei protagonisti ai complessi scenari politico-diplomatici dell'epoca, attingendo a fonti ufficiali governative e giornalistiche, ma anche a memorie e a interviste dall’autrice personalmente condotte. Antonio Riva nacque a Shanghai nel 1896 da genitori lombardi giunti in Cina per commerciare in seta. In quegli anni, anche a causa della epidemia di pebrina che mise in ginocchio la bachicoltura di tutta l'area mediterranea, molti sericoltori italiani erano emigrati in Asia per rifornirsi di seme bachi non infetti e per sviluppare i commerci con la madrepatria. A Shanghai Antonio visse fino all'età di 12 anni, quando rientrò in Italia per completare gli studi superiori. Asso dell'Aviazione della Grande Guerra fu insignito della Medaglia d'Argento al Valor Militare e del grado di Cavaliere dell'Ordine Militare di Savoia. Nel 1919 venne quindi inviato in Cina per allestire i campi di atterraggio del raid aviatorio Roma-Tokyo organizzato da D'Annunzio e dal poeta giapponese Shimoi, compiuto poi dai piloti Ferrarin e Masiero a bordo dei celebri biplani SVA Ansaldo. Decise quindi di rimanere in Cina, il paese in cui era nato e cresciuto, il paese in cui si sentiva a casa. Da questo momento la sua vita si snodò attraverso le pieghe della travagliata storia cinese. Fondò 'The Asiatic Import and Export Corporation” e come mercante d'armi fece presto fortuna, vendendo aerei ai Signori della Guerra che si contendevano il paese. All'epoca anche il governo fascista aveva allacciato stretti rapporti col regime nazionalista di Jiang Jieshi, col duplice intento di esportare in Cina prodotti bellici e consiglieri militari. Proprio il Rappresentante del Regno d'Italia in Cina, Galeazzo Ciano, ebbe l'idea di una Missione aeronautica: nel 1933 giunsero in Cina il Colonnello Pilota Roberto Lordi e l'Ufficiale Inferiore del Genio Aeronautico Niccolò Galante, incaricati dal Generalissimo di riorganizzare il settore ed addestrare al volo e al bombardamento i piloti nazionalisti. Riva fu il Segretario di tale Missione e per questo incarico nel 1943 venne insignito dell'Onorificenza di Cavaliere dell'Ordine dei Ss. Maurizio e Lazzaro (onorificenza mai consegnata a causa del crollo del regime). Il governo italiano inviò lo stesso anno anche una Missione Navale, guidata dal Capitano di Vascello Luigi Notarbartolo di Villarosa. Altri connazionali ricoprirono in Cina ruoli di grande prestigio: Gibello Socco fu il Direttore delle Ferrovie Manciuriane, Evaristo Caretti delle Poste Cinesi. Armando De Luca fu il responsabile delle Dogane interne e Quirino Gerli di quelle portuali. Il Professor Attilio Lavagna, Consigliere di Cassazione, lavorò all'elaborazione del nuovo Codice Penale Cinese del 1935, collaborando anche alla ristrutturazione del Ministero di Giustizia. Affascinante e mondana era la vita di questi italiani nella Cina degli anni '30, tra ricevimenti in Ambasciata e pranzi al Circolo sino-italiano di Pechino. Shanghai, la Perla d'Oriente, era una città moderna e provocante, rispetto alla piccola Italia. Tuttavia l'avvicinamento tra Italia e Giappone segnava il passo.Se la cessazione dei rapporti tra l’Italia e la Cina nazionalista nel 1941 non creò grandi problemi agli italiani in Cina, la situazione si fece drammatica dopo l'8 settembre, quando anche essi furono costretti a una scelta di campo: Riva si dichiarò fedele a Salò e rimase a vivere nella Pechino occupata dai giapponesi, chi si dichiarò antifascista (per esempio il Gerli) venne internato in campi di concentramento. Nel dopoguerra Riva divenne rappresentante a Pechino per la James Walter and Sons, società di commercio di estintori e apparecchiature antincendio. L'azienda non fruttava, ma la ricerca di altri impieghi non ebbe successo: ormai quasi tutti i suoi amici erano rimpatriati, la maggior parte degli stranieri era fuggita o era stata espulsa, gli americani si erano trasferiti a Hong Kong. Il neonato regime comunista non amava gli stranieri. Proprio in questo clima di paura e sospetto avvenne l'arresto del protagonista e dei suoi compagni di sventura: il giapponese Ruichi Yamaguchi, condannato a morte come Riva, il tedesco Walter Genthner, il francese Henry Vetch, gli italiani Mons. Tarcisio Martina e Quirino Gerli. L'accusa: essere spie americane e aver progettato l'assassinio del Presidente Mao in occasione delle celebrazioni della prima Festa Nazionale. Per Riva una sorte segnata: fascista (nel 1926 aveva anche fondato la sezione cinese del Partito Fascista), filo-nazionalista prima e filo-giapponese poi, ora non poteva non essere una spia al servizio degli americani. D'altra parte i servizi segreti cinesi erano certi dell'esistenza di una congiura antirivoluzionaria, di un piano segreto americano per rovesciare il regime comunista. Pertanto i congiurati erano da tempo pedinati, osservati, fotografati. La mente del presunto complotto invece, il generale americano David D. Barrett, già comandante della missione Dixie, aveva da tempo riparato a Taipei. L'accusa inconsistente, data l'assenza di prove inconfutabili. Il processo condotto a porte chiuse, senza difesa né contraddittorio. La confessione, estorta sotto tortura nei lunghi mesi di detenzione. Il malcelato disinteresse della diplomazia italiana. Un destino scritto in partenza. Il governo italiano non riconosceva ancora la Repubblica Popolare Cinese: il nostro Primo Segretario a Nanchino, Ezio Mizzan (e con lui tutto il personale diplomatico dei paesi che non avevano proceduto al riconoscimento) era stato degradato a privato cittadino e rimpatriato nel 1952. Certo il fatto che Riva fosse imparentato con un inglese (suo cognato era funzionario del Foreign Office con incarico a Pechino) avrebbe forse potuto giocare a suo favore, dato che la Gran Bretagna era uno dei pochi stati che avevano invece riconosciuto la Cina comunista, ma ciò non poteva da solo essere sufficiente. Gli investigatori cinesi in fondo non avevano dubbi “... i loro paesi hanno fatto quello che hanno fatto durante la guerra, non hanno rapporti con noi, cosa vuoi che succeda. Un po' di baccano, qualche protesta e poi tutto sarà dimenticato. In fondo è gente che non ha nessun valore per i loro governi”. Riva venne giustiziato il 17 agosto 1951, sepolto in tombe senza nome. A fatica la moglie, accompagnata da Padre Fortunato Tiberi, riuscì a traslare la salma al Cimitero gesuita di Chala, prima di lasciare il paese per sempre. Scelse di vivere a Genova, dove lavorò per l'USIS, l'Agenzia degli Stati Uniti per i servizi investigativi, e lì morì nel 1983. Per tutto il 1952 il figlio maggiore pagò mensilmente al governo italiano l'importo di 5000 lire a rimborso delle spese sostenute per il rimpatrio della famiglia. Le conclusioni della vicenda sono affidate alle parole di Zhao Ming, all'epoca Vice Direttore dell'Ufficio Investigativo di Pechino, intervistato dalla stessa autrice: “Il caso di quel Riva ce lo siamo per lo più inventato noi. [...] Qualcosa di vero c'era, ma era solo una piccola parte della storia. [...] C'erano tutti gli elementi, i personaggi e le situazioni perché si potesse facilmente creare un caso. Ma se non ci fosse stato Riva, ne avremmo trovato un altro. E avremmo avuto la nostra bella congiura americana. Era quello che ci serviva allora.” E per l'Italia, una brutta pagina di storia da non dimenticare.
SINCRETISMO RELIGIOSO E SANTERIA CUBANA
di Erica Lai
Per capire a fondo la cultura cubana non è possibile prescindere dalle religioni afrocubane, in particolare dalla Santeria e dai suoi rituali, forse uno dei misteri, agli occhi della maggioranza, più affascinanti che unisce la variegata popolazione del Caribe, composta da un crogiuolo di razze e culture amalgamate attraverso i secoli in un popolo capace di sentire con forza la propria unità nazionale.
La Santeria o Regla de Ocha nasce a Cuba ed ha origine dalla religione degli Yoruba, negli odierni Nigeria sud occidentale e Benin che dal 1573 al 1870, furono deportati nel Nuovo Mondo come schiavi.
La tratta degli schiavi è un fenomeno che risale almeno al X secolo e che durò fino alla fine del XIX secolo. Prima gli Arabi e poi anche gli Europei utilizzavano schiavi provenienti dall'Africa subsahariana e occidentale, deportati lungo le rotte commerciali che attraversavano l'Africa, l'Oceano Indiano e l'Oceano Atlantico. Il commercio degli schiavi ebbe una notevole importanza nella storia di molti popoli africani, soprattutto quando iniziò la colonizzazione del Nuovo Mondo.
Infatti, nel XVI secolo, le grandi potenze europee (in particolar modo Spagna e Portogallo) iniziarono a creare insediamenti nelle Americhe, dove cercarono di far lavorare come schiavi gli indigeni americani, capendo ben presto che tale soluzione non era sufficiente, a causa della decimazione delle popolazioni native dovuta alle malattie importate dai conquistatori europei.
Cosi, prima lentamente e poi con incremento della velocità, iniziò la tratta degli schiavi africani, un fenomeno che vide gli Europei alleati con alcuni regni locali, soprattutto della Costa del Golfo di Guinea.
Per quanto riguarda lo specifico caso di Cuba, dalla metà del secolo XVI furono portati sull'isola una grande quantità di schiavi provenienti appunto dall'Africa per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e di altri prodotti come il caffè. Sequestrati barbaramente dalle coste del Golfo della Guinea e dalle selve del più intricato Congo, furono una vantaggiosa mercanzia nel più crudele e inumano traffico che la storia abbia mai conosciuto.
Tra questi schiavi, quelli provenienti dall'Africa Occidentale subsahariana e specialmente quelli appartenenti ai gruppi Yoruba, furono quelli che esercitarono una maggiore influenza nel processo di integrazione al sistema religioso e sociale dell'isola, e anche coloro che riuscirono con maggiore rapidità ad estendere le proprie manifestazioni e a costruire un collegamento evidente tra le altre culture africane che esistevano a Cuba già prima dell'arrivo degli Yoruba.[1]
Nella terra d'origine, tale gruppo, la cui struttura sociale era caratterizzata da una complessa gerarchia che aveva come rappresentante del potere supremo un sovrano, chiamato oba, diede impulso ad una fiorente civiltà che raggiunse nei territori degli attuali Nigeria e Benin (ex Dahomey) un grado di cultura davvero significativo.
Gli dei yoruba, o Orishas, nel caso specifico di Cuba si adattarono alle realtà indigene presenti nell'isola e a quella cattolica, dando come risultato una sovrapposizione di credenze nell'ambito delle quali i santi cattolici furono venerati in un complesso religioso che in seguito prese il nome di Regla de Ocha[2] o, com'è più comunemente nota, Santeria.
Il silenzio e la segretezza che si resero indispensabili da parte degli schiavi africani per allontanare i sospetti dei padroni cattolici, i quali si dimostravano prevenuti ed intimoriti dinanzi ai loro riti e cerimonie, giudicandoli un misto di barbarie e di stregoneria, costituisce ancora oggi un esempio di difesa delle proprie origini e tradizioni minacciate dall'esterno.[3]
Infatti, durante il secolare dominio coloniale, gli spagnoli permettevano agli schiavi di praticare la religione, ritenendo che ciò avrebbe contribuito a evitare ribellioni.
Comunque i riti, pur camuffati con una copertura cattolica potevano essere praticati apertamente solo nei cabildos, ognuno dei quali, per legge, dedicato a un santo cattolico. Ne conseguì che varie credenze di origine africana si fusero fortemente con il cattolicesimo nella Regla de Ocha e la religione risultante, la Santeria, risultò ammantata da una patina di cattolicesimo.
Il sistema religioso conosciuto come Santeria trova fondamento in un complesso sistema di credenze magico-religiose che individuano negli Orishas le divinità protettrici degli uomini.
Gli Orishas sono divinità immateriali che dimorano nei vari elementi naturali (fiumi, mari, boschi, ecc...); in principio esseri umani poi divennero divinità in quanto possedevano l'Aché, ovvero una forza e un'energia speciali[4]. Essendo stati uomini, si presentano con gli stessi vizi e virtù di questi ultimi: ognuno di essi ha diverse preferenze e prerogative, dal cibo a determinati colori, dalle danze alle parti del corpo, oltre alla forza della natura che domina.
Nella Santeria sono presenti il culto della natura attraverso i regni vegetale, animale e minerale e il dialogo con le forze sovrannaturali che può avvenire in maniera diretta o indiretta attraverso strumenti divinatori e rituali quali conchiglie, tamburi ed altri oggetti; l'utilizzo di candele, noci di cocco, acqua e fumo di tabacco, serve come veicolo di purificazione e comunicazione.
La Santeria cubana in tutte le sue sfaccettature, è comunque una religione giovane anche se ha radici molto antiche e lontane. I suoi fedeli provengono da tutti gli strati sociali e si dice che persino Fidel Castro creda nella Santeria benché il governo cubano abbia scoraggiato per tre decenni la pratica di questa religione e comunque di tutte le religioni afro-cubane. A partire dagli anni '80, tuttavia, c'è stata una certa liberalizzazione e queste religioni sono “rifiorite”. Oggi molti cubani professano sia la Santeria che il Cattolicesimo, che per loro coesistono senza problemi.
[1]Miguel Barnet, Afro-Cuban Religions, Union, La Havana, 1995, p.5.
[2]Laura Monferdini, La Santeria Cubana, Xenia, Milano, 2001, pp. 15-23
[3]Idem, p. 27
[4]Bruno Barba, Brazil Meticcio: Iemanjá, Caetano e il cannibale che ci salverà, Il Segnalibro, Torino, 2004, pag. 94.
La Santeria o Regla de Ocha nasce a Cuba ed ha origine dalla religione degli Yoruba, negli odierni Nigeria sud occidentale e Benin che dal 1573 al 1870, furono deportati nel Nuovo Mondo come schiavi.
La tratta degli schiavi è un fenomeno che risale almeno al X secolo e che durò fino alla fine del XIX secolo. Prima gli Arabi e poi anche gli Europei utilizzavano schiavi provenienti dall'Africa subsahariana e occidentale, deportati lungo le rotte commerciali che attraversavano l'Africa, l'Oceano Indiano e l'Oceano Atlantico. Il commercio degli schiavi ebbe una notevole importanza nella storia di molti popoli africani, soprattutto quando iniziò la colonizzazione del Nuovo Mondo.
Infatti, nel XVI secolo, le grandi potenze europee (in particolar modo Spagna e Portogallo) iniziarono a creare insediamenti nelle Americhe, dove cercarono di far lavorare come schiavi gli indigeni americani, capendo ben presto che tale soluzione non era sufficiente, a causa della decimazione delle popolazioni native dovuta alle malattie importate dai conquistatori europei.
Cosi, prima lentamente e poi con incremento della velocità, iniziò la tratta degli schiavi africani, un fenomeno che vide gli Europei alleati con alcuni regni locali, soprattutto della Costa del Golfo di Guinea.
Per quanto riguarda lo specifico caso di Cuba, dalla metà del secolo XVI furono portati sull'isola una grande quantità di schiavi provenienti appunto dall'Africa per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero e di altri prodotti come il caffè. Sequestrati barbaramente dalle coste del Golfo della Guinea e dalle selve del più intricato Congo, furono una vantaggiosa mercanzia nel più crudele e inumano traffico che la storia abbia mai conosciuto.
Tra questi schiavi, quelli provenienti dall'Africa Occidentale subsahariana e specialmente quelli appartenenti ai gruppi Yoruba, furono quelli che esercitarono una maggiore influenza nel processo di integrazione al sistema religioso e sociale dell'isola, e anche coloro che riuscirono con maggiore rapidità ad estendere le proprie manifestazioni e a costruire un collegamento evidente tra le altre culture africane che esistevano a Cuba già prima dell'arrivo degli Yoruba.[1]
Nella terra d'origine, tale gruppo, la cui struttura sociale era caratterizzata da una complessa gerarchia che aveva come rappresentante del potere supremo un sovrano, chiamato oba, diede impulso ad una fiorente civiltà che raggiunse nei territori degli attuali Nigeria e Benin (ex Dahomey) un grado di cultura davvero significativo.
Gli dei yoruba, o Orishas, nel caso specifico di Cuba si adattarono alle realtà indigene presenti nell'isola e a quella cattolica, dando come risultato una sovrapposizione di credenze nell'ambito delle quali i santi cattolici furono venerati in un complesso religioso che in seguito prese il nome di Regla de Ocha[2] o, com'è più comunemente nota, Santeria.
Il silenzio e la segretezza che si resero indispensabili da parte degli schiavi africani per allontanare i sospetti dei padroni cattolici, i quali si dimostravano prevenuti ed intimoriti dinanzi ai loro riti e cerimonie, giudicandoli un misto di barbarie e di stregoneria, costituisce ancora oggi un esempio di difesa delle proprie origini e tradizioni minacciate dall'esterno.[3]
Infatti, durante il secolare dominio coloniale, gli spagnoli permettevano agli schiavi di praticare la religione, ritenendo che ciò avrebbe contribuito a evitare ribellioni.
Comunque i riti, pur camuffati con una copertura cattolica potevano essere praticati apertamente solo nei cabildos, ognuno dei quali, per legge, dedicato a un santo cattolico. Ne conseguì che varie credenze di origine africana si fusero fortemente con il cattolicesimo nella Regla de Ocha e la religione risultante, la Santeria, risultò ammantata da una patina di cattolicesimo.
Il sistema religioso conosciuto come Santeria trova fondamento in un complesso sistema di credenze magico-religiose che individuano negli Orishas le divinità protettrici degli uomini.
Gli Orishas sono divinità immateriali che dimorano nei vari elementi naturali (fiumi, mari, boschi, ecc...); in principio esseri umani poi divennero divinità in quanto possedevano l'Aché, ovvero una forza e un'energia speciali[4]. Essendo stati uomini, si presentano con gli stessi vizi e virtù di questi ultimi: ognuno di essi ha diverse preferenze e prerogative, dal cibo a determinati colori, dalle danze alle parti del corpo, oltre alla forza della natura che domina.
Nella Santeria sono presenti il culto della natura attraverso i regni vegetale, animale e minerale e il dialogo con le forze sovrannaturali che può avvenire in maniera diretta o indiretta attraverso strumenti divinatori e rituali quali conchiglie, tamburi ed altri oggetti; l'utilizzo di candele, noci di cocco, acqua e fumo di tabacco, serve come veicolo di purificazione e comunicazione.
La Santeria cubana in tutte le sue sfaccettature, è comunque una religione giovane anche se ha radici molto antiche e lontane. I suoi fedeli provengono da tutti gli strati sociali e si dice che persino Fidel Castro creda nella Santeria benché il governo cubano abbia scoraggiato per tre decenni la pratica di questa religione e comunque di tutte le religioni afro-cubane. A partire dagli anni '80, tuttavia, c'è stata una certa liberalizzazione e queste religioni sono “rifiorite”. Oggi molti cubani professano sia la Santeria che il Cattolicesimo, che per loro coesistono senza problemi.
[1]Miguel Barnet, Afro-Cuban Religions, Union, La Havana, 1995, p.5.
[2]Laura Monferdini, La Santeria Cubana, Xenia, Milano, 2001, pp. 15-23
[3]Idem, p. 27
[4]Bruno Barba, Brazil Meticcio: Iemanjá, Caetano e il cannibale che ci salverà, Il Segnalibro, Torino, 2004, pag. 94.